Qui trovi le prime pagine del romanzo
Di Caterina Civallero
Spesso la musica mi porta via come fa il mare. Sotto una volta di bruma o in un vasto etere metto vela verso la mia pallida stella.
Petto in avanti e polmoni gonfi come vela
scalo la cresta dei flutti accavallati che la notte mi nasconde;
sento vibrare in me tutte le passioni d’un vascello che dolora,
il vento gagliardo,
la tempesta e i suoi moti convulsi
sull'immenso abisso mi cullano.
Altre volte, piatta bonaccia, grande specchio della mia disperazione!
(La Musique, da Les fleurs du mal,
Charles Baudelaire 1857)
RINGRAZIAMENTI
Gran parte di quest’opera deve la sua vita al Dottor Antonio di Natale, Segretario Generale della Fondazione Acquario di Genova ONLUS, biologo marino che ha lavorato in oltre sessanta Paesi per conto del Governo Italiano, di diverse organizzazioni internazionali (ONU, FAO, UNESCO, IUCN, IWC) e di vari enti.
Per diversi anni coordinatore delle ricerche sul tonno nell’Atlantico, e nei mari adiacenti, per conto della International Commission for the Conservation of the Atlantic Tunas, ha gestito il più grande prodotto di ricerca esistente su una singola specie marina.
Per undici anni vice-presidente del Comitato Tecnico, Scientifico ed Economico della Pesca della Commissione Europea a Bruxelles, e autore di diversi libri e di oltre 270 pubblicazioni scientifiche, ha alimentato il mio interesse per il Madagascar, condividendo le sue preziose conoscenze esperienze e ricordi di viaggio.
Madagascar un viaggio per liberare due cuori deve il suo respiro al suo grandioso supporto.
Con tutto il cuore grazie.
PROLOGO
14 Agosto 2000
E’ calata la notte e il silenzio del mare ha inghiottito ogni cosa.
Da giorni avevo come la sensazione che il mondo mi stesse per crollare addosso, adesso so perché mi sentivo a quel modo.
Un cappello senza forma mi copre la testa, come un vecchio coperchio di latta storto dall’usura. Calato sul naso maschera gran parte del mio viso per impedire che sulla fronte si possano leggere i miei pensieri. Sono sempre andato prudente con i miei pensieri, provo un enorme fastidio quando qualcuno tenta di decifrare cosa penso. So di avere un carattere di merda, ma che ci posso fare? Che si facciano i fatti loro.
La visiera è come una linea rossa di demarcazione. Segnala dove inizio io e dove finisce il mondo, e adesso, in questo momento è distante da me più del solito.
E’ il mio turno di guardia all’ancora. Seduto in prua con le gambe a penzoloni osservo ipnotizzato i lenti cerchi monotoni e regolari che la barca compie intorno alla catena d’ormeggio, mentre la luna disegna lievi, inutili, onde perlate sul pelo dell’acqua.
I miei occhi come crateri di un vulcano spento, sono foderati da cerchi di pelle gonfia e arrossata e nulla può celare il lucido che a tratti mi violenta lo sguardo. La rabbia trabocca dal cuore e spinge forte sulle tempie perché detesto che mi si veda piangere.
Sento l’anima schiaffeggiata e mi sento paralizzato come una bambola di pezza ciondolante e senza vita: non riesco a reagire.
Giorgio è in coperta a riposare; i clienti, anche se lui preferisce chiamarli “ospiti” sono nelle cabine a dormire. Prima di scendere mi ha appoggiato una coperta di lana sulle spalle: precauzione inutile: non sento niente, né freddo né gelo, solo un profondo desolante senso di vuoto.
Sconvolto incredulo muto, avverto il passato irrompere nella mia vita come il peggiore degli incubi: si insinua ovunque, spinge forte come un uragano e scardina le cerniere della porta che ho chiuso con tanta determinazione per tenerlo fuori.
Quando ho chiamato Giulia per sapere se a casa stavano tutti bene mi ha dato la notizia. “Sta molto male Elio. Le hanno iniziato la terapia a base di morfina. Non so cosa vuoi fare tu, cosa deciderai di fare, ma io parto domani. Vado a trovarla”.
“Fai bene Giulia, vai se te la senti” le ho risposto stringendo il telefono che sembrava sciogliersi in mano.
“Quando parti?”.
“Mi porta Fabio domani pomeriggio appena
arriva da Milano, da sola non riuscirei a guidare l’auto. Sono troppo scossa”.
“Va bene, ti chiamo domani sera se siamo in porto, per sapere …. scusa ma io non ce la faccio” le ginocchia piegate dal colpo tremavano.
“Non preoccuparti, intanto vado io, sempre che accetti di vedermi”.
Il suo tono era vuoto e lontano come se qualcuno avesse spezzato a metà una canna di bambù e ci stesse parlando dentro, ma una parte di me temeva nascondesse un rimprovero.
Ero certo che non avrebbe compreso le mie scelte, che l’avrei pagata cara e salata in qualche modo, come tutto il resto. Avrei tanto voluto saperle spiegare perché non sarei andato, ma sapevo che era inutile. Con mia sorella ci sentivamo poco, in tutti i sensi.
Stai morendo.
Dolorosamente lontano da noi, lontano da me, in segreto. Ancora una volta hai trovato il modo di tenerci lontani dalla tua vita e di sconvolgere la nostra platealmente, irrimediabilmente.
Questa sarà l’ultima, mamma!
Quanti ricordi e quanti pensieri, quanti desideri e speranze si confondono e si inseguono in questo momento, e poi la realtà che mi arriva
sulla faccia come uno schiaffo: sei malata; una malattia che non perdona.
Non verrò a trovarti di questo sono certo, non mi presenterò da te per vederti in un letto di ospedale, a soffrire per il tuo dolore. Non ti permetterò di causarmi altro male.
I tuoi occhi non si poseranno più sui miei e tu non potrai più guardarci dentro e stregarmi con la tua forza diabolica.
Non verrò nemmeno a vederti morta in una scatola di legno sdraiata in una posa elegante, immobile e paziente come se fossi stata sempre lì ad aspettarmi.
Non voglio vederti morire perché non accetto che tu abbia preferito la strada di questa devastante malattia piuttosto di percorrere la strada della vita che ti avrebbe condotto a me.
Sono anni che tenti di morire sotto i miei occhi, sono anni che ti vedo trattare la tua vita come il peggiore dei dispetti che Dio abbia potuto farti.
Ti scriverò.
Ti scriverò una o cento volte e sarò crudo forte duro, come tu sei stata con me.
Strapperò con i denti la rete che ti imprigiona, una rete dentro la quale ti sei incagliata tanto tempo fa, sirena dannata, poi cercherò la porta vergine del tuo cuore: la colpirò a pugni, spallate, la sfonderò a colpi di martello e verrò dentro a liberare la tua anima intrappolata da sempre in uno spazio troppo piccolo perché si possa riuscire a respirare.
E allora ti prenderò per mano, ti avvicinerò a me una volta soltanto e tenendoti stretta ti condurrò con il mio corpo dentro la danza dell’amore.
Balleremo insieme una volta sola; ti farò volteggiare, ti solleverò, poi allenterò la presa lasciandoti scivolare via dalle mie braccia e dalle mie mani; sarai libera di andare, libera di volare ed essere acqua o fuoco o terra o aria.
Libera, mamma.
Libera.
Per sempre.
CAPITOLO UNO
16 Gennaio 2002
E’ mattino quando atterro a Mombasa. Tutto intorno un tenue profumo di torta alla frutta appena sfornata, che sento solo quando sono in Kenya. Una prima tappa di alcune ore per la registrazione dei documenti prima della partenza verso il Madagascar e poi di nuovo in aereo per l’aeroporto di Antananarivo, che mi attende coperta da un triste cielo nuvoloso. Ho solo poco più di un’ora di tempo per sbrigare le formalità doganali e prendere l’altro volo interno per Tulear e poi finalmente per Fort Dauphin: speriamo vada tutto liscio.
Finalmente seduto sull'ultimo aereo della giornata posso rilassarmi mentre decollo e volo verso sud.
Dove mi trovo? Cosa ci faccio qui a diecimila metri di altezza e altrettanti chilometri da casa?
Comincio a pensare, cercando fuori dal finestrino, motivi che mi convincano che la mia non sia stata una follia, che fuggire così non sia stata soltanto incoscienza.
Da qualche mese avvertivo di nuovo quegli strani e forti dolori al petto e all'addome. Il mio corpo era stanco e io sapevo di non averne il pieno controllo. La ristrutturazione della casa, iniziata per distrarmi e tenere le mani e la mente impegnate, non era ancora terminata e aveva assorbito tutte le mie energie senza riuscire nel suo intento.
Non ero riuscito a operare molti cambiamenti, in fondo i soldi che avevo a disposizione non erano molti, ma alcune modifiche alla struttura della casa ero riuscito a impostarle, non senza un certo orgoglio. Stavo tentando di dargli un aspetto personale, di renderla più abitabile, calda e confortevole, volevo che mi somigliasse, volevo sentirla mia, ma ero ancora molto lontano da quella sensazione. Alcuni pavimenti erano stati sostituiti, la scala pericolante era stata messa in sicurezza e rivestita di pietra. C’era ancora polvere ovunque e anche se i muratori avevano terminato da quindici giorni non c’era ancora una stanza completamente in ordine. Percepivo la polvere anche sotto la pelle. Ero davvero molto stanco, e non solo per i lavori di edilizia. Il mio cuore scalpitava, a tratti pareva volermi disarcionare e io non riuscivo in nessun modo a dominarlo. Avvertivo l’urgenza di un mio movimento di una mia reazione o sarei caduto di nuovo nel baratro della sofferenza. Ne ebbi paura. Si innescò così un ingranaggio che mi portò a desiderare con tutte le forze quel viaggio che tanto avevo sognato tempo prima.
La domanda che avevo inoltrato l’anno precedente al dipartimento di studi era stata accolta; accettavano che io svolgessi la mia ricerca per la tesi di laurea in una base estera per lo studio dei dugonghi, una specie di mammiferi della categoria dei sirenidi di cui mi ero appassionato fin da bambino, all'inizio un po’ per gioco, a causa del loro buffo aspetto, poi più seriamente per via del fatto che erano a rischio di estinzione.
Estinzione, quella parola era sempre stata molto familiare per me. Mi sono sempre sentito a rischio estinzione. Un animale di altri tempi, scomodo, obsoleto, innocuo, ma temuto per le sue stranezze.
La notizia dell’imminente partenza giunse tanto inattesa quanto gradita, e nonostante il sapore confortevole di un toccasana, sapevo riconoscere che celava il gusto di qualcosa di pericoloso: ho la dote, o la disgrazia, di percepire in anticipo quando sta per cambiare il vento, e non mi riferisco al movimento nel mare. Sento quando le cose cambiano, ma lo sento un po’ prima. Quasi so prevedere l’arrivo dei guai, ma non li so evitare. Li so riconoscere dal sottile rumore che emanano muovendosi in assoluto silenzio: li sento strisciare fino a me, li percepisco mentre si spostano e si orientano; alle volte li vedo, o mi pare di vederli, mentre scelgono la vittima su cui avvinghiarsi: in quei momenti mi manca il fiato. Divento freddo come il ghiaccio e mi si ferma il respiro. Sto immobile senza reagire nella speranza che i guai non mi vedano e scelgano di andare altrove; qualche volta funziona, la maggior parte delle altre no.
In Madagascar avrei trovato un clima caldo ma con punte di escursione termica notturna molto alte. Ero abituato al mare per cui non fu difficile indovinare l’abbigliamento giusto. Decisi di mettere in valigia un po’ di tutto, e tranne i berretti da montagna e i guanti da sci preparai, riempiendole di ogni tipo di indumento, tre enormi valige, in cui cercai di farci stare dentro tutto quello che avrebbe potuto servirmi per un viaggio che somigliava, sempre più, a un trasferimento. Per non sentire la mancanza di casa decisi di portare con me la foto di quando ero piccolo. La tenevo sul comodino, e mi piaceva averla lì perché al mattino e alla sera mi ricordava chi ero e chi avrei continuato a essere per sempre; presi l’unica cartolina che mi scrisse mia nonna paterna, una cartolina con una rosa rossa di seta ricamata sopra - cartoline così non ne fanno più- in cui mi ricordava di studiare per far contenti i genitori. Il suo promemoria non era servito a molto: io ero sempre stato molto diligente a scuola, ma questo non servì a evitare la loro separazione.
Presi una piccola coccinella di Murano talmente piccola da stare sulla punta di un dito, un quarzo rosa grosso come un fagiolo, un temperino di ferro, un pettine di legno, dieci cacciaviti con il manico blu, un uncino, chiodi, viti e una forbice per lamiera, un libro di poesie, anche se avrei voluto portare con me tutti i miei libri, e il biglietto di auguri scritto da mio padre per Natale, in cui mi augurava felicità e serenità.
Ne avevo davvero bisogno.
Se solo le cose con lui e con mia sorella fossero andate meglio non avrei vissuto la partenza come una fuga.
Mi sentivo senza patria, né famiglia, né radici.
Niente che mi facesse provare un senso di appartenenza, nessun valido motivo che mi trattenesse in città.
Nessuno cui dover badare e nessuno che potesse o volesse badare a me si oppose alla mia partenza. Nemmeno la mia gatta avrebbe sentito la mia mancanza. Divideva la sua vita fra me e la mia vicina; dormiva da me e mangiava da lei. Con me era dolcissima e affettuosa, con lei arrogante e aggressiva. Un vero caso di sdoppiamento di personalità. Ovviamente aveva due nomi; “Biba” con cui veniva chiamata da lei, e “Venerdì” quello che le avevo dato io, scelto in base al giorno in cui lei aveva deciso di venire a stare da me.
Ero già stato via molte volte. Venerdì non ne aveva mai sofferto, lo vedevo chiaramente dai suoi comportamenti, che non rimproveravano le mie assenze. Potevo tornare al mattino presto o alla notte tardi, dopo un giorno di assenza o trenta: lei era sempre lì nel cortile davanti al box della mia auto ad aspettarmi, senza trepidazione senza rimprovero o pretesa ma con l’aria serena e sicura di chi già conosceva il momento preciso del mio ritorno.
Solo questa volta sarebbe stato un po’ più lungo. Ma non mi pareva un motivo valido per non accettare la proposta.
Fu una sensazione insolita partire. Sarei stato via davvero molto, ma stavo lasciando la casa come se avessi dovuto tornare dopo poco tempo.
Il giorno della partenza arrivò senza che me ne accorgessi. Fu mentre preparavo la valigia e la cartella dei documenti che smisi di fingere di non aver paura; con il cuore che tremava diedi inizio al mio viaggio.
Partii con l’entusiasmo e la trepidazione di chi ha già perso il treno una volta. Chiusi la porta di casa, e sentii il tuono della serratura che scattava fin nelle ossa, come qualcosa che si chiude per non riaprirsi mai più; nella fretta dimenticai la borsa con le fotografie e gli altri oggetti che avevo scelto con cura.
Non ne avrei sentito la mancanza.
La mia vita, la mia vita fino a quel momento, non sarebbe più esistita così come la conoscevo e le fotografie sarebbero rimaste solo una lontana testimonianza di chi ero e del luogo da cui provenivo.
Io non sarei più stato lo stesso, mai più.
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